
L’8 e il 9 giugno 2025, i cittadini italiani saranno chiamati alle urne per esprimersi su cinque quesiti referendari riguardanti tematiche cruciali come il lavoro e la cittadinanza. E’ un referendum di natura abrogativa, la cui indizione è stata approvata dal Consiglio dei Ministri su proposta del Presidente del Consiglio Giorgia Meloni e del Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, attraverso cinque distinti schemi di decreto.
Ma cosa significa esattamente referendum abrogativo?
Un referendum abrogativo è uno strumento di democrazia diretta previsto dall’articolo 75 della Costituzione italiana, attraverso il quale i cittadini possono esprimere la propria volontà sull’eliminazione totale o parziale di una legge o di un atto avente forza di legge. Perché il referendum sia valido, è necessario che partecipi al voto la maggioranza degli aventi diritto (quorum) e che prevalga il “sì” all’abrogazione. Non è possibile proporre referendum su leggi tributarie, di bilancio, di amnistia, indulto e ratifica dei trattati internazionali. I referendum abrogativi si attivano su richiesta di almeno 500.000 elettori o cinque Consigli regionali.
I Quesiti Referendari sul Lavoro
Quattro dei cinque quesiti si concentrano su aspetti legati al mondo del lavoro:
1. Abolizione del Contratto a Tutele Crescenti (Jobs Act):
«Volete voi l’abrogazione del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, recante “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183” nella sua interezza?»
La norma attualmente in vigore riguarda i lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato dal 7 marzo 2015 in poi, nelle aziende con più di 15 dipendenti. In caso di licenziamento illegittimo, a questi lavoratori non è più riconosciuto il diritto al reintegro nel posto di lavoro, ma solo un’indennità economica.
Oggi, sono oltre 3,5 milioni le lavoratrici e i lavoratori che rientrano in questa condizione, un numero destinato a crescere negli anni. Questo meccanismo, anche nei casi in cui un giudice dichiari il licenziamento infondato o ingiustificato, impedisce il ritorno in azienda, riducendo significativamente le tutele reali contro i licenziamenti illegittimi.
Con questo referendum, si chiede ai cittadini di eliminare la disciplina attuale per ripristinare la possibilità del reintegro nei casi in cui il licenziamento sia riconosciuto come privo di giusta causa o giustificato motivo.
2. Incremento delle Tutele per i Lavoratori delle Piccole Imprese
«Volete voi l’abrogazione dell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, recante “Norme sui licenziamenti individuali”, come sostituito dall’art. 2, comma 3, della legge 11 maggio 1990, n. 108, limitatamente alle parole: “compreso tra un”, alle parole “ed un massimo di 6” e alle parole “La misura massima della predetta indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori di lavoro.”?»
Il secondo quesito referendario mira a eliminare il tetto massimo all’indennità prevista nei casi di licenziamento illegittimo nelle piccole imprese.
Attualmente, nelle aziende con meno di 16 dipendenti, una lavoratrice o un lavoratore licenziato senza giusta causa può ottenere, anche a fronte di una sentenza favorevole, un risarcimento non superiore a sei mensilità.
Questa limitazione, applicabile a oltre 3 milioni e 700mila dipendenti di piccole imprese in Italia, riduce drasticamente le tutele contro i licenziamenti ingiustificati, lasciando i lavoratori in una posizione di debolezza e soggezione.
Il referendum propone di cancellare questo limite, lasciando al giudice la libertà di determinare l’ammontare dell’indennizzo in base alle circostanze del caso, all’anzianità e alla gravità della violazione, senza alcun tetto predefinito. L’obiettivo è rafforzare concretamente i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori anche nelle realtà produttive più piccole.
3. Limitazione dei Contratti a Termine
«Volete voi l’abrogazione dell’articolo 19 del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 recante “Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183”, comma 1, limitatamente alle parole “non superiore a dodici mesi. Il contratto può avere una durata superiore, ma comunque”, alle parole “in presenza di almeno una delle seguenti condizioni”, alle parole “in assenza delle previsioni di cui alla lettera a), nei contratti collettivi applicati in azienda, e comunque entro il 31 dicembre 2025, per esigenze di natura tecnica, organizzativa e produttiva individuate dalle parti;” e alle parole “b bis)”; comma 1 -bis , limitatamente alle parole “di durata superiore a dodici mesi” e alle parole “dalla data di superamento del termine di dodici mesi”; comma 4, limitatamente alle parole “,in caso di rinnovo,” e alle parole “solo quando il termine complessivo eccede i dodici mesi”; articolo 21, comma 01, limitatamente alle parole “liberamente nei primi dodici mesi e, successivamente,”?»
Il terzo quesito referendario interviene sul tema della precarietà, proponendo la modifica delle regole attuali che disciplinano i contratti a tempo determinato.
In Italia, sono circa 2 milioni e 300 mila le persone impiegate con contratti a termine. La normativa vigente consente alle aziende di attivare contratti di durata fino a 12 mesi senza dover fornire alcuna motivazione oggettiva, come esigenze tecniche, organizzative o produttive.
Il quesito propone di ripristinare l’obbligo delle cosiddette “causali” fin dal primo giorno del contratto a termine, rendendo necessaria una giustificazione concreta per il ricorso a forme di lavoro non stabili. L’obiettivo è quello di favorire l’occupazione a tempo indeterminato e contrastare l’abuso della flessibilità contrattuale che, negli ultimi anni, ha contribuito ad aumentare la precarietà, soprattutto tra i giovani e nei settori più fragili del mercato del lavoro.
4. Responsabilità negli Appalti per la Sicurezza sul Lavoro
«Volete voi l’abrogazione dell’art. 26, comma 4, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, recante “Attuazione dell’articolo 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro” come modificato dall’art. 16 del decreto legislativo 3 agosto 2009 n. 106, dall’art. 32 del decreto legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito con modifiche dalla legge 9 agosto 2013, n. 98, nonché dall’art. 13 del decreto legge 21 ottobre 2021, n. 146, convertito con modifiche dalla legge 17 dicembre 2021, n. 215, limitatamente alle parole “Le disposizioni del presente comma non si applicano ai danni conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici.”?»
Il quarto quesito referendario riguarda la tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, con particolare attenzione al tema degli appalti.
Ogni anno in Italia si registrano circa 500.000 denunce di infortunio sul lavoro. Le morti bianche sfiorano quota 1.000 l’anno, ovvero quasi tre lavoratori al giorno che perdono la vita mentre svolgono la propria attività. Numeri allarmanti, che rendono urgente una riflessione sul sistema attuale di responsabilità.
Il referendum propone di abrogare una norma specifica del Testo Unico sulla Sicurezza (D.Lgs. 81/2008) che esclude, nei contratti di appalto, la responsabilità del committente per i danni derivanti da rischi specifici dell’attività svolta dall’appaltatore o subappaltatore.
L’obiettivo è quello di estendere la responsabilità dell’impresa appaltante anche in caso di infortuni causati da negligenze del soggetto esecutore, rafforzando così la catena dei controlli e incentivando l’affidamento a imprese solide, affidabili e conformi alle normative in materia di sicurezza.
Modificare l’attuale assetto normativo significherebbe garantire maggiore tutela per i lavoratori impiegati negli appalti, ridurre il rischio di impunità e promuovere una cultura della prevenzione più rigorosa e condivisa.
5. Il Quesito sulla Cittadinanza
«Volete voi abrogare l’articolo 9, comma 1, lettera b), limitatamente alle parole “adottato da cittadino italiano” e “successivamente alla adozione”; nonché la lettera f), recante la seguente disposizione: “f) allo straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica.”, della legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante nuove norme sulla cittadinanza”?»
Il quinto quesito referendario interviene sulla normativa relativa all’ottenimento della cittadinanza italiana per gli stranieri residenti.
In particolare, propone di ridurre da 10 a 5 anni il periodo minimo di residenza legale continuativa in Italia richiesto per presentare domanda di concessione della cittadinanza, riportando il requisito al termine previsto dalla legge originaria del 1865, rimasto in vigore fino alla riforma del 1992 (Legge n. 91/1992, art. 9).
La modifica non interviene sugli altri requisiti previsti dalla normativa vigente, che restano invariati: conoscenza adeguata della lingua italiana, possesso di un reddito sufficiente, assenza di condanne penali, rispetto degli obblighi fiscali e assenza di motivi ostativi legati alla sicurezza nazionale.
Il quesito ha un impatto potenzialmente significativo: oltre 2,5 milioni di persone di origine straniera, che vivono stabilmente in Italia, vi lavorano, studiano o sono nati sul nostro territorio,.
Importanza della Partecipazione
Questi referendum rappresentano un’opportunità significativa per i cittadini di influenzare direttamente la legislazione su temi fondamentali come il diritto al lavoro e l’integrazione sociale. È essenziale informarsi adeguatamente sui quesiti proposti e partecipare attivamente al voto, contribuendo così a plasmare il futuro del Paese in ambiti di primaria importanza.